Le malattie allergiche sono probabilmente sempre esistite. Le prime descrizioni della rinite allergica risalgono ai primi decenni del 1800. Fino al 1960 si può calcolare che le malattie allergiche (rinite e asma, dermatite atopica e da contatto, allergie alimentari ecc.) fossero presenti tra l’1% e il 2% della popolazione.
Dal 1960, nei paesi occidentali, l’aumento è stato vertiginoso. Già nel 1970 si calcola che le malattie allergiche colpissero il 4,5% della popolazione per passare all’8,4% nei primi anni 80 e al 20% nel 2010. L’organizzazione mondiale della sanità stima che nel 2050 si potrà arrivare ad un 50% di popolazione allergica.
Quali sono attualmente le ipotesi più accreditate per giustificare questo aumento?
La prima è senza dubbio la cosiddetta “ipotesi igienica” (ipotesi di Strachan del 1989). In questo caso la responsabilità viene attribuita al fatto che il nostro sistema immunitario “lavora” meno rispetto al sistema immunitario dei nostri nonni e bisnonni e diminuisce così un tipo di linfociti (i linfociti T helper-1) che sono “protettivi” nei confronti delle malattie allergiche. La maggior parte della popolazione prima del secondo conflitto mondiale viveva vicino a stalle a stretto contatto con animali, beveva latte non pastorizzato, beveva spesso acqua del pozzo, non veniva sottoposta a vaccinazioni, non aveva a disposizioni armi per combattere le infezioni come gli antibiotici. Si trattava di una popolazione che, se fosse giunto ad una età adulta, avrebbe avuto un sistema immunitario molto forte. Ricordiamoci però che la mortalità infantile era molto elevata e che l’aspettanza di vita era molto più bassa di oggi.
Possiamo dire che derivata da questa ipotesi c’è l’ipotesi dei “vecchi amici” (ipotesi di Rook del 2003) che vede implicata, nel nostro organismo, la minor presenza di microorganismi commensali non patogeni che hanno accompagnato l’umanità in tutta la sua esistenza, microorganismi che sono la fonte di segnali immunomodulatori che prevengono le malattie immuno-mediate.
Raccoglie e modifica in parte queste due ipotesi, la più recente “barrier hypothesis”(formulata nel 2017 da Pothoven e Schleimer e ripresa nel 2021 da Akdis) che vede implicato un difetto delle barriere epiteliali cutanee, delle alte e basse vie respiratorie, e della mucosa intestinale. Questo difetto di barriera che comporterebbe l’aumento delle malattie immuno mediate e non solo, sarebbe legato ai detergenti industriali, ai detergenti domestici per l’igiene della casa e per l’igiene personale, a surfattanti, enzimi, emulsificanti presenti in cibi industriali, al fumo di sigaretta, al particolato atmosferico, al materiale incombusto emesso dai vecchi motori diesel, a microplastiche ecc.
Difficile ipotizzare come invertire in maniera efficace la rotta se non attraverso un approccio multidisciplinare e ad un cambiamento globale, ormai imprescindibile, dello stile di vita.

Poche terapie al mondo hanno una esperienza così consolidata come la terapia desensibilizzante specifica (AIT: allergen immunotherapy). Centodieci anni di storia che di certo pesano sulle sue spalle come un sigillo di efficacia e sicurezza.


La prima pubblicazione a riguardo è del 1911 sulla prestigiosa rivista Lancet da parte di Noon. All’epoca non si conosceva quasi nulla degli intimi meccanismi che conducono alla reazione allergica. Le immunoglobuline E (IgE) che, come abbiamo imparato leggendo le pagine di questo sito, sono gli anticorpi che producono gli allergici, sarebbero state scoperte più di 50 anni dopo. Noon inoculando degli estratti di polline, che allora si pensava contenesse delle generiche “tossine” ottenne un miglioramento dei sintomi congiuntivali primaverili nei pazienti affetti da “febbre da fieno”. Il primo trial controllato sulla terapia è del 1954 ad opera di William Frankland . Da allora è stato un susseguirsi di studi che hanno portato a dimostrare quelle che sono le pietre miliari dell’immunoterapia desensibilizzante. Johnston e Dutton nel 1968 sottolinearono il fatto che l’AIT può prevenire l’asma nei bambini. Johansson e Bennich descrissero nel 1982 l’induzione da parte dell’AIT di anticorpi bloccanti l’allergia (le immunoglobuline G4) che sono alla base del meccanismo di azione dell’AIT e della sua persistente efficacia alla sospensione. Oltre alla produzione delle IgG4 (cosiddette “bloccanti”) venne descritto nel 1998 da ADKIS e collaboratori l’induzione dal parte dell’AIT di linfociti T regolatori che inducono una soppressione della risposta allergica. È di Creticos nel 1989 e nel 1998 dei ricercatori italiani Passalacqua e Canonica la descrizione della riduzione della infiammazione allergica (infiammazione eosinofila) in seguito all’AIT.


Su PUB MED la biblioteca medica del National Institute of Health sono indicizzati ad oggi (26/01/2022) 8060 articoli sui meccanismi dell’AIT e 7162 articoli sulla sua efficacia.


Possiamo di usufruire di una terapia che incide a fondo sui meccanismi dell’allergia, che migliora i sintomi e riduce il consumo di farmaci, con un’efficacia che persiste nel tempo, prevenendo lo sviluppo di nuove allergie e la comparsa di asma. Nel campo, per fortuna meno frequente, dell’allergia agli imenotteri la terapia desensibilizzante quasi azzera il rischio clinico.


A fronte di tutto questo meno dell’1% dei pazienti allergici viene trattato con una terapia desensibilizzante e soprattutto pochissimi conoscono questa opportunità. Questo è un vero mistero….

I pollini allergenici sono rappresentati dai gameti maschili di piante ad impollinazione anemofila (non legata all’azione degli insetti impollinatori, ma determinata dal vento). L’allergenicità dei pollini è legata al loro peso (un polline pesante si deposita a terra e resta poco aerodisperso), alla quantità (piante che producono modeste quantità di polline generalmente sono poco allergeniche o danno solo “allergia di vicinanza”), e agli agenti climatici che determinano l’aerodispersione come il vento, l’umidità (è necessario un clima asciutto per la liberazione del polline), i moti convettivi. La piovosità di una stagione può influenzare molto l’aerodispersione, piogge frequenti non forti possono favorire la pollinazione mentre energici piovaschi la possono abbattere e ridurre drasticamente.

Nel nostro territorio (nord est della pianura Padana) i pollini più diffusi sono quelli delle graminacee e della betulla-nocciolo. Le graminacee fioriscono soprattutto nel mese di maggio e giugno mentre i pollini di betulla-nocciolo fioriscono più precocemente (marzo aprile soprattutto).

Gli ultimi 4 anni sono stati caratterizzati da alcune interessanti variabilità. Il polline delle graminacee ha cominciato ad essere disperso nell’aria a concentrazioni significative il 20 aprile nel 2021, il 12 aprile nel 2020, addirittura il 3 maggio nel 2019, e il 24 aprile nel 2018. Una differenza quindi di 20 giorni tra il 2020 e il 2019.  I picchi pollinici hanno raggiunto, sempre per le graminacee, valori di 155 granuli per metrocubo d’aria nel 2021, di 220 granuli nel 2020, di 113 nel 2019 e di 227 granuli nel 2018.

Da questo vediamo come la primavera 2019 sia stata completamente diversa per il paziente allergico rispetto alla primavera 2020.

La dispersione dei pollini di betulla-nocciolo è stata più lieve nel 2021 rispetto al 2020, anno in cui si sono verificati picchi di polline di nocciolo di 1100 granuli per metro cubo d’aria, con una presenza elevata anche nelle primavere 2019 e 2018.

A commento di questi dati va però aggiunto che la situazione è più complessa per quanto riguarda ogni singolo paziente affetto da queste allergie. Esiste infatti la possibilità che per effetti osmotici, il polline si “rompa” liberando granuli paucimicrobici più difficili da rilevare dai captatori di polline e in grado di dare importanti reazioni allergiche nel paziente sensibilizzato. Esiste poi l’effetto priming per cui nel paziente che ha già sintomi indotti dal polline sono necessarie quantità di polline meno elevate per dare disturbi rispetto a quelle necessarie a dare sintomi all’inizio della stagione. Inoltre, esistono altre variabili che possono favorire l’allergenicità di un polline legate all’ambiente come gli inquinanti. Il particolato esausto dei vecchi motori diesel, per esempio può aumentare l’allergenicità di alcuni pollini e può accadere come è stato ampiamente dimostrato, che individui che vivono in ambienti con maggiori quantità di polline ma poco inquinati abbiamo meno sintomi di pazienti che vivono vicino ai caselli autostradali o in zone ad elevato traffico veicolare.

I pazienti allergici ai pollini possono manifestare in varia percentuale sintomi con l’ingestione di alcuni alimenti di origine vegetale.

Questi sintomi vengono di solito inquadrati nella sindrome orale allergica caratterizzata da prurito orale comparsa di vescicolazioni sulla mucosa orale, o di vere e proprie afte. Questi sintomi si manifestano quasi immediatamente al contatto della mucosa orale con l’alimento incriminato e sono legati alla presenza di allergeni in comune tra il polline e l’alimento.

Questi allergeni in comune appartengono soprattutto alle famiglie allergeniche delle profilline e delle PR-10, proteine che di norma vengono inattivate nel loro potere allergenico dal calore (non sono presenti quindi negli alimenti vegetali cotti) e dalla digestione peptica (non arrivano intatte all’intestino e non sono assorbibili).

Gli alimenti in grado di dare la sindrome orale allergica differiscono in base alle varie famiglie polliniche verso le quali si può essere sensibilizzati.

Nel caso dell’allergia ai pollini delle betullacee-corylacee (betulla ontano carpino nocciolo) la sindrome orale allergica si manifesta con l’ingestione soprattutto di mela pesca ciliegia nocciola kiwi.

Negli allergici ai pollini delle graminacee (loglietto, gramigna, bambagiona, erba mazzolina) gli alimenti più spesso in causa sono il melone l’anguria il pomodoro le arachidi.

Gli allergici al polline delle compositae (artemisia soprattutto) possono avere sindrome orale allergica con miele, camomilla, sedano, finocchio.

Molti altri alimenti vegetali poi possono dare sintomatologia buccale, quelli che ho elencato sono i più comuni.

Esistono poi anche allergie crociate tra alimenti di origine animale e allergeni respiratori non pollinici ma in questo caso si tratta di allergeni che sono in grado di venire assorbiti e di dare sintomi sistemici, esulano quindi dalla sindrome orale allergica e saranno oggetto di un’altra comunicazione.

La temperatura media del nostro pianeta è in continuo aumento soprattutto a causa della continua emissione della CO2 nell’atmosfera.

L’aumento della temperatura è evidenziato dal riscaldamento degli oceani, dallo scioglimento dei ghiacciai, dall’innalzamento del livello delle acque, dal ridotto innevamento.

Non è questo blog di allergologia il posto adatto per parlare delle catastrofiche conseguenze del riscaldamento globale, come la desertificazione e la migrazione in massa di intere popolazioni, argomenti tanto urgenti quanto negletti, messi troppo spesso in terzo ordine dalla informazione, e spesso dalle nostre coscienze.  Parlarne su questo blog ha senso perché il riscaldamento globale ha importanti conseguenze per il paziente allergico.

Per esempio, per il paziente affetto da allergia ai pollini. Il riscaldamento globale ha comportato un prolungamento della stagione pollinica che inizia più precocemente e termina più tardi, una aumentata quantità di polline prodotta dalle piante e una aumentata quantità di allergene nel polline (molto spesso gli allergeni sono delle proteine di difesa delle piante).

 L’aumentata frequenza di eventi climatici estremi come temporali, uragani, trombe d’aria comporta l’immissione massiva di elevatissime quantità di polline nell’atmosfera. Questa primavera in certe zone della mia regione ci sono stati picchi di polline per esempio, del nocciolo, di 800 granuli per metro cubo d’aria, quando la quantità sufficiente ad indurre sintomi nell’allergico è di 30-40 granuli per metro cubo!

 È facile intuire come molte terapie preventive “saltino” di fronte a queste enormi quantità di polline.

Un’altra conseguenza del “global warming” è la diffusione di piante tipiche di altre regioni con clima più temperato in regioni con clima più rigido con un aumento, questa volta, di specie allergogene. 

Accanto ai problemi legati al polline una aumentata diffusione si assiste analogamente per le muffe allergeniche. Quest’estate (2020), l’alternaria, la più importante muffa allergogena, nota per scatenare gravi crisi di asma, è stata massicciamente presente nell’atmosfera nella regione Veneto da Giugno a metà Ottobre mentre classicamente la sua presenza era confinata ai periodi tardo estivi e del primo autunno.

Termino scrivendo che persino gli allergici agli insetti vedono un cambiamento con il riscaldamento globale, una delle specie di vespe più frequenti nell’indurre sensibilizzazioni come il polistes dominulus, un tempo tipica solo dell’Europa mediterranea, si sta diffondendo nell’Europa del Nord. È una “buona notizia” solo per la nostra economia per il fatto che nessuna industria farmaceutica del nord Europa produce “vaccini” salvavita per il polistes dominulus mentre li produce una industria Italiana!

Le manifestazioni cutanee legate alle forme allergiche (orticaria, dermatite atopica, dermatite da contatto, manifestazioni cutanee associate allo shock) sono, classicamente associate al sintomo del prurito. Il mediatore principale delle allergie è rappresentato dall’istamina che ha una azione diretta di stimolo dei nocicettori del prurito.

Esistono però, tante forme di prurito non legate all’allergia.

Se tralasciamo i pruriti indotti da malattie dermatologiche per esempio il prurito della psoriasi, perchè di competenza dermatologica, i pruriti da malattie internistiche più comuni sono:

  • il prurito nella insufficienza renale cronica
  • il prurito nella colestasi epatica
  • il prurito da affezioni ematologiche come nella policitemia o nei linfomi/leucemie
  • il prurito senile
  • il prurito da malattie neurologiche
  • il prurito paraneoplastico
  • il prurito dell’ipertiroidismo e nell’ipotiroidismo
  • il prurito indotto da farmaci

Oltre ai pruriti “internistici” non vanno dimenticati i pruriti zoogeni (tra i più comuni quelli della scabbia o della pediculosi, infestazioni sempre attuali) ma anche in questo periodo i pruriti indotti, per esempio, dai peli di processionaria o dei bruchi, e infine i pruriti fitogeni come quelli indotti dalla primula o dal fico.

Si tratta di forme di prurito che molto spesso non rispondono alle usuali cure con anti-istaminici e che necessitano di un approccio terapeutico molto personalizzato. Quando possibile, la cura della malattia di base porta a risoluzione del prurito.

Una particolare rara forma di prurito che è giunta alla mia osservazione è la rara sindrome di Ekbom (o delirio da parassitosi).

Si tratta di una forma di delirio percui il paziente ritiene fermamente (ed è quasi impossibile opporsi ala sua convinzione) di essere infestato da ragnetti, piccoli vermi o pidocchi che vede muoversi sulla cute. Per questo si gratta furiosamente provocandosi importanti lesioni cutanee o strappandosi capelli e peli. Accanto al trattamento psichiatrico è indispensabile il trattamento delle lesioni cutanee che tendono ad infettarsi a causa delle continue lesioni indotte dal paziente.

Il cortisone è uno dei farmaci più noti e accessibili a nostra disposizione.

Ha una potente azione antiinfiammatoria e il suo utilizzo nelle patologie allergiche è stato convalidato già  dagli anni 50 del secolo scorso.

La sua efficacia è talmente riconosciuta che in moltissime case degli italiani è presente nel cassetto dei farmaci.

Se da un lato però si tratta di un’arma efficacissima, dall’altro, il suo utilizzo non è privo di effetti collaterali anche molto importanti.

Gli effetti collaterali coinvolgono quasi tutto l’organismo e vanno dall’aumento della glicemia, all’osteoporosi, alla gastrite, alla cataratta, all’ipertensione solo per citare i più comuni e i più noti.

Da questo ne deriva che il suo utilizzo deve essere sempre consigliato e monitorato da un medico che abbia “confidenza” con questo farmaco.

E’ il classico farmaco che non deve assolutamente far parte dei farmaci di automedicazione, ma deve essere prescritto nel dosaggio giusto e per il tempo necessario ad esplicare la sua efficace e potente azione.

In ambito allergologico si devono studiare molte strategie terapeutiche per evitarne quando è possibile l’utilizzo.

Oltre alle classiche terapie farmacologiche con antistaminici e antileucotrienici, la terapia desensibilizzante specifica quando è possibile effettuarla (e questo va giudicato solo da un allergologo) è una terapia riconosciuta per essere in grado di risparmiare molto utilizzo di cortisone.

Negli anni più recenti poi sono stati introdotti in commercio farmaci molto mirati (chiamati farmaci biologici) in grado di contrastare in modo molto specifico (non generico come nel caso del cortisone) i mediatori biochimici che volgono nell’allergico una azione pro-infiammatoria.Si tratta di farmaci molto costosi e attualmente utilizzabili solo in casi molto particolari ma la loro diffusione sta aprendo la strada a nuovi approcci molto personalizzati nella cura del paziente allergico.

Nell’ambito dell’allergia alimentare distinguiamo solitamente sintomi locali ovvero prurito al palato e alla mucosa orale con spesso vescicolazione e aftosi buccale, e sintomi sistemici che coinvolgono tutto l’organismo come l’anafilassi. 

I sintomi locali sono spesso legati alla reattività crociata polline-alimento (alimenti vegetali che hanno allergeni in comune con i pollini per esempio il melone negli allergici alle graminacee o la mela negli allergici alle betulle) e colpisce fino al 60% dei pazienti con allergia ai pollini. Le reazioni sistemiche ovviamente molto più gravi e pericolose colpiscono circa il 2% ella popolazione. Un recente studio pubblicato nel 2019 sulla prestigiosa rivista JAMA (Prevalence and Severity of Food Allergies Among US Adults) condotto su oltre 40.000 adulti evidenzia come i sintomi sistemici gravi di allergia alimentare possano colpire fino al 10,8% della popolazione americana. In questo studio gli alimenti maggiormente coinvolti erano rispettivamente i crostacei e i molluschi, le arachidi, il latte, altri frutti a guscio (noci, mandorle, noce brasiliana ecc.) e il pesce. Il più frequente ricorso alle cure del pronto soccorso avveniva per gli allergici al sesamo, allergene, a differenza di altri di difficile “riconoscimento” negli alimenti.

Esiste una grande variabilità individuale nella percezione dei sintomi dell’asma.

Esistono pazienti che con una minima riduzione del flusso aereo avvertono una grave sensazione di difficoltà di respiro e pazienti, viceversa, che devono arrivare ad una marcata riduzione dei flussi espiratori per capire che la loro asma si sta aggravando. Questa ultima tipologia di pazienti è soggetta ad un grave rischio clinico. Mi è capitato di osservare, anche in giovani pazienti, riduzione dei volumi e dei flussi espiratori del 50% rispetto ai valori normali mentre  sostenevano che la loro asma in quel momento, era sotto controllo. Si tratta di  pazienti con elevato rischio di morte per asma. Altre volte ci si imbatte in pazienti che fanno un uso elevato di broncodilatatori sebbene i “valori” del loro respiro siano pressoché normali.

L’esecuzione della spirometria diventa dirimente nel quantificare la gravità dell’asma, nel rendere consapevole il paziente e il monitoraggio dei valori della spirometria nel tempo permette di aggiustare la terapia nel miglior modo possibile.

Nell’ambito della “cura” uno dei problemi maggiori è l’aderenza del paziente alla terapia. Molti pazienti riducono o sospendono le terapie per i più disparati motivi (il più delle volte senza motivo) rendendo inefficaci le cure. Nel dicembre 2019 ho rivalutato la casistica dei pazienti allergici agli imenotteri in immunoterapia desensibilizzante specifica  dal 2014 al 2019. I risultati sono stati molto interessanti.

Su 120 pazienti in terapia desensibilizzante, 41 pazienti erano stati ripunti. Alla ripuntura l’88% dei pazienti è risultato completamente protetto, senza manifestare nessuna reazione allergica. Altro dato veramente peculiare è stato quello dell’aderenza alla terapia perché a distanza di 5 anni nessun paziente aveva abbandonato la terapia.

Questo dato, unico nel suo genere (non esiste aderenza alla terapia nel 100% dei casi in nessun campo della medicina che io sappia), è dovuto al particolare vissuto del paziente (la reazione è stata tale da preoccupare, giustamente, molto l’interessato), ma anche alla grande efficacia sul campo della terapia e non da ultimo al particolare rapporto che si instaura tra medico e paziente nei regolari incontri per la somministrazione del preparato immunoterapico “vaccino”.